Link originale: http://www.lenottole.it/2019/02/21/uninquieta-dolcezza-alla-ricerca-del-corpo-perduto/

 

Da lunedì 11 a giovedì 14 marzo 2019 si terrà per gli studenti della Sapienza il Laboratorio di Elementi di creazione coreografica diretto da Davide Valrosso, presso il Balletto di Roma. Un incontro con l’artista ci ha permesso di introdurre il processo su cui si fonda il suo lavoro e di tracciare un profilo della sua ricerca, partendo in questo caso da un’idea che potrebbe sembrare inconciliabile così come la sensazione di non riuscire a riconoscere il proprio corpo come quello che si è sempre abitato, sentirlo modificato nella sua percezione e mancante nella sua pienezza, lontano dalla sua memoria e disorientato nella sua presenza.

di Valeria Vannucci

L’ossimoro è una figura retorica che accosta due termini inconciliabili nel loro significato ed è generalmente utilizzato per spiegare qualcosa che è talmente inspiegabile da dover ricorrere alla contraddizione per poterne dare un’idea. Anche parlare delle Biografia di un corpo può sembrare un ossimoro concettuale, il fatto di poter collegare una forma stabile e codificata come la scrittura alla mutevolezza dinamica di un corpo. Eppure una biografia è l’impronta della vita di ciascuno e un corpo vissuto è in grado di abitare il presente incorporando ogni segno che il passato gli ha inciso sopra. Proprio in quell’ossimoro, cioè nel rintracciare la Biografia di un corpo e la sua memoria, non scrivendola ma indagandola, si può risolvere questa contraddizione, se inoltre si considera la danza come uno dei linguaggi privilegiati attraverso cui svelare la memoria del corpo e come «una filosofia che contiene in sé il mistero dell’esistenza», nell’ottica di Davide Valrosso, autore e interprete di questa ricerca.

Coreografo, performer e danz’autore originario di Trani, ha costruito la sua Biografia di un corpo a partire da una necessità e una volontà d’espressione che l’artista ha coltivato nel corso degli ultimi quattro anni: cercare la verità del corpo, riflettere sulla sua essenza fuori e dentro il linguaggio della danza.

Nel risalire all’origine della creazione Davide Valrosso torna alla prima tournée di Cosmopolitan Beauty, Appunti di viaggio, lavoro ispirato da una serie di spunti che l’artista raccoglieva per ogni tappa: «Come al solito io sono sempre inquieto, quindi anche questo lavoro cambia ogni volta. Per tutti i viaggi scrivevo dei piccoli appunti di esperienze e poi cercavo di metterli insieme in coreografia. Quando ho fatto quel lavoro avevo un corpo da ragazzino e poi andare in scena con un corpo diverso è stato molto strano». In quest’esperienza Davide Valrosso trova uno dei primi spunti che hanno portato alla luce riflessioni più profonde sulla sensibilità della memoria corporea. In seguito, allo studio del mistero della perdita proprio attraverso il suo stesso corpo che, con la danza, può rivelarne l’essenza dimenticata, persa, seppellita. Infine ecco la realizzazione di Biografia di un corpo: «Principalmente una delle cose su cui riflettevo è l’idea di corpo come incubatore, come archivio di memorie. Allora: come le nostre memorie sono profondamente incise nella nostra struttura muscolare e scheletrica? Quindi: voglio parlare di qualcosa che ha a che fare con l’essenza, di come un corpo può esprimere se stesso al di là del concept coreografico».

Al corpo come protagonista del processo di riappropriazione il danz’autore collega la luce come necessario strumento d’indagine. Elemento ricorrente nei suoi lavori precedenti (come We are not alone e Sogno, una notte di mezza estate, entrambi realizzati col Balletto di Roma) la luce assume una funzione drammaturgica fondamentale e, di volta in volta, differente. È appunto la luce ad accogliere lo spettatore e a guidarlo all’interno della mappa corporea del danzatore, attraverso piccoli fari che raccolgono pelle, carne e ossa come onesti indicatori di memoria.

Luce piena, spazio spoglio e un uomo che lo attraversa fino alla soglia anteriore, al centro della scena, disperdendo il suo sguardo nella platea. Il danzatore si allontana dagli spettatori mentre la luce si affievolisce, fino a far sparire tutto nel buio e lasciare che lo spazio si riempia del suono della vibrazione 637. Attraverso quei piccoli oggetti luminosi il corpo torna a mostrarsi, parte per parte, analizzando le memorie incise sulla sua struttura fisica: «Le mie spalle raccontano tante cose, per quanto possa provare a tenerle dritte e magari avere una fisicità atletica perché sono un danzatore; però in realtà io ho delle caratteristiche ossee che dichiarano degli aspetti del mio carattere», sottolinea Davide Valrosso. Un corpo può essere educato dal metodo, allenato dalla tecnica, ma sotto ognuno di quegli strati rimane la sua memoria incubatrice, nei segni con cui il carattere l’ha disegnato nel tempo e nelle forme che resistono alla disciplina. Quel corpo, quello che viene avanti sul proscenio, si interroga sulla sua memoria per imparare a conoscersi, che può voler dire reimparare a camminare, a guardarsi, a scoprirsi, fino ad arrivare all’ultimo dei livelli possibili, per cui diventa necessario «dimenticare per poter imparare», frase ricorrente nelle lezioni di Valrosso.

Davide Valrosso che si scopre sulla scena è alla ricerca dell’essenza e della verità, dell’abbandono della mitizzazione e dell’artificio. Al di là di una preparazione fisica che modifica quello che si potrebbe chiamare l’assetto emotivo di un corpo, il tentativo è di mostrare l’immagine corporea spoglia da ogni strato che ne ostacoli la memoria, quella che si costruisce anche in base al carattere, che si porta dietro l’infanzia, il cambiamento, il timore, la scoperta e il rinnovamento, ma sempre tale da ricordare chi si è e chi si è stati. Principale difatti, affianco al corpo come archivio di memorie e all’indagine sulla luce, è per Valrosso la questione della verità: sulla sua partitura coreografica il tentativo è quello di accettare gli stimoli che ogni volta possono invadere la scena e accoglierli nella fusione del momento. Sarebbe facile vedere in questo lavoro una mera esibizione narcisistica o puro esibizionismo estetico se invece non fosse più di ogni altra cosa una presa di consapevolezza e insieme un atto di onestà: generalmente ci si accorge di aver perso qualcosa quando è già successo, solo quando è già accaduto si può percepire di aver lasciato indietro qualche pezzo di sé e quello che rimane è un nuovo corpo da abitare, con cui è possibile fare i conti.

Si potrebbero trovare diversi riferimenti rispetto alla genesi di Biografia di un corpo, dall’idea di corpo come incubatore all’istallazione di Bill Viola Man Searching for Immortality/Woman Searching for Eternity, che si rifà a sua volta alle pitture di Albrecht Dürer raffiguranti Adamo ed Eva. Si può tornare alle ricerche sulla trasmissione, al sapere corporeo e alle sue espressioni, ma più di ogni altra cosa Biografia di un corporacchiude un momento personale che si rivela allo stesso tempo collettivo, un processo di riappropriazione che l’autore ha fatto sul suo corpo, che riavviene ogni volta in lui sulla scena e anche in chi, senza agire, scopre la sua reincarnazione osservandolo. Lo studioso e critico di danza John Martin, qualche anno fa, affermava che attraverso la danza di un altro corpo lo spettatore può ricevere sul suo stesso sistema muscolare e scheletrico le esperienze recepite nelle azioni coreografiche, facendole proprie fra il presente della rappresentazione e il passato della memoria personale. Tra questi due punti Davide torna al corpo e alle verità che può mostrare per conoscersi nuovamente, per poter fare sì che il linguaggio della danza non ne ostacoli una possibile rilettura ma che diventi mezzo di liberazione.

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