Mai meno di uno e mai più di tre. Occorre osservare, essere in ascolto e in presenza, prestare attenzione, che tu sia dentro o fuori dall’esercizio. Così, a cavallo fra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio 2020, ha inizio il secondo giorno della residenza artistica di Love|Paradisi Artificiali, uno degli ultimi progetti coreografici di Davide Valrosso, realizzato con la collaborazione delle danzatrici Chiara AmeglioOlimpia Fortuni e Giulia Porcu.

Ospitati da Armunia all’interno degli spazi dell’ex Fattoria Arcivescovile del Castello trecentesco di Rosignano Marittimo, Davide Valrosso, artista, performer, danz’autore e coreografo, comincia a mettere alla prova le sue danzatrici elaborando un esercizio per attivare, fra sensibilità, densità e ascolto, l’attenzione come pratica di presenza. «Come se entraste in un fantasma», è la metafora che permette l’accesso a nuovi livelli e gradi di creazione, dove «qualcosa si sedimenta e altro si perde», e in cui il principio che prende corpo è proprio quello di uscire ed entrare. In questa dialettica immaginare di immergersi in un fantasma diventa la chiave per condensare le scie energetiche dei movimenti tracciati nello spazio, un esercizio di incorporazione che è, allo stesso tempo, un’apparente svuotarsi per riempirsi di tensioni vitali. Il fantasma di un gesto, di un percorso, di una persona o di noi stessi, che «funziona solo se accetti la sconfitta di generare». Osservare l’altro, in questi tentativi, innesca un meccanismo di ascolto personale e introspettivo, che permette di sfuggire dalla mera riproduzione meccanica o interpretativa per una ricerca verso il principio del movimento, l’origine del suo scaturire, in cui bisogna «cogliere la densità dello spazio per mostrare un percorso interiore».

Un dispositivo funzionale al training che risulta adiacente al processo drammaturgico e creativo, atto a creare nell’esercizio la stessa densità e urgenza che direziona le danzatrici a livello coreografico. Qui l’ascolto, per riflettersi organicamente nel movimento e nella relazione interpersonale, deve implementarsi permettendo a ognuna di loro di uscire dalla zona confort e abbandonare le scorciatoie: «Chi sta fuori deve stare molto attento, è uno scambio. E l’idea di scambio richiede una certa forma di preparazione». Dare e ricevere, percepire il moto e la tensione verso altro, acuire la concentrazione e la presenza ancor prima di muoversi, sono già tracce con cui è possibile avvicinarsi alla dialettica dell’amore: «[…] essendo l’amore un moto, e non avendosi alcun moto se non verso qualcosa, quando chiediamo che cosa debba amarsi, chiediamo appunto cosa sia ciò verso cui bisogna muoversi», come recitavano le lezioni agostiniane. Abitare un fantasma diventa un espediente per ascoltarsi, percepire in maniera estrinseca una sorta di metafisica del movimento nella deflagrazione delle danzatrici (e del coreografo): «Per sfuggire dai task lotti, lotti e lotti ancora. Perditi nel fuoco, anche se non ce la fai più». Sono diversi i richiami che questo tipo di pratica porta a considerare, tecniche e teorie che collegano la tradizione quattrocentesca fino agli studi più recenti, dalla fantasmata di Domenico da Piacenza, avvicinandosi anche alle dinamiche di attivazione della coscienza trasparente e del sé mobile.

Entrando nel merito del processo coreografico, che raccoglie le dinamiche corporee espresse nella pratica preparatoria e si struttura anche su di esse, il titolo di quest’opera ha dei rimandi immediati, alcuni dei quali vengono trattenuti nell’elaborazione drammaturgica.

Amore, Love, è il primo universo da estrapolare: non c’è, in questo processo, alcuna aspirazione ermeneutica. Piuttosto, c’è una ricerca che si propone di portare sulla scena le sfaccettature, le dinamiche e i dettagli dei contrasti che costituiscono l’amore, soprattutto l’idea che se ne può avere e il suo rapporto con la realtà. Un incontro-scontro in un cortocircuito che, a livello coreografico, si conclude positivamente. Un amore che si relaziona con il desiderio e la dipendenza, le potenzialità soppresse o sottese, la dipendenza amorosa o l’amore dipendente, la droga dell’amore. Si lotta contro la concettualizzazione unica, respingendo un modello isolato e categorizzabile in cui l’amore perderebbe la sua ragion d’essere, a favore di tutte le diversità che ne fanno parte. «Il generale è invocato solo attraverso il particolare; e ricordiamo il particolare solo in funzione del generale», affermava lo scrittore Bernard Dort, e in questo senso la ricerca coreografica di Davide Valrosso trova la sua dimensione proprio nella relazione fra soggettivo e universale, producendo un’evocazione reciproca.

Su questa riflessione, fa eco l’origine – controversa – del termine. La parola amore ha una storia etimologica particolare, un’origine incerta e variegata che la ricollega al desiderio, alla relazione, all’assenza della morte, dunque alla vita, al bene, all’attrazione. Contiene il suo contrario inevitabilmente – la morte – come tutto il resto dei contrasti, creando una tensione fra gli antipodi e, allo stesso tempo, un loro possibile incontro, un collegamento che ne rivela la potenza vitale. Lo stesso termine latino ‘a-mors’ sembra essere traducibile con un’altra accezione, distante dalla prima ma decisamente accostabile alle evidenze coreografiche di Love, ossia “senza costrizioni, totalmente libero”, considerando ‘mors’ col significato di costume. La riflessione che guida la ricerca di Davide Valrosso si sofferma sul risvolto contemporaneo delle dinamiche amorose, sull’impronta asettica delle relazioni e sull’incapacità di amare o farsi amare nella società odierna. Una democrazia dell’amore, se è ancora possibile, che si realizza nei Paradisi Artificiali.

Il richiamo alla celebre opera di Baudelaire non si realizza in una traduzione o trasposizione delle tematiche affrontate dal poeta maledetto, piuttosto si nutre di alcune componenti strutturali: l’evocazione dell’atmosfera allucinogena dei paradisi artificiali, la dicotomia che evidenzia il rovescio della medaglia e quello che viene definito come ‘gusto dell’infinito’. Se per Baudelaire i richiami alle sostanze psicotrope comprendono la necessità e la condanna dell’antropologica tensione umana oltre la mortalità della quotidianità, per Valrosso questa si riversa nell’ossessione, scivolando in un meccanismo di dipendenza-dipendente. I paradisi artificiali di Baudelaire sono droghe e alcol, sostanze psichedeliche che permettono al suo protagonista una fuga apparente dai propri limiti. Nella composizione coreografica non si realizza fuga, la ripetizione permane per generare schemi e distruggerli ogni volta, una subordinazione che si riflette nelle diverse espressioni della dipendenza, che può essere affettiva, gestuale, sensuale, erotica, terrifica. L’estetica si nutre dei dettagli, frammenti di corpi e sdoppiamenti degli arti che si realizzano nel riflesso di uno specchio, membra spoglie che si barcamenano in una dimensione che ne rivela i tratti, a volte deboli e vulnerabili, altre violenti e stranianti, oppure coesistendo nella stessa immagine. Come una scena sospesa, nel silenzio e nell’aggregazione dei corpi, in cui si configura una sorta di Medusa tabagista, dapprima circospetta e timorosa, che poi si perde in attimo di inebriante seduzione.

Estrapolando dalla realtà l’odierna incapacità umana di nutrirsi dell’amore, di darsi o di riceverlo, tutta l’azione coreografica si realizza in una cornice onirica, un’atmosfera da sogno in cui Davide Valrosso mette in scena le nuance di un amore che ha infinite inclinazioni, atti bianchi o neri della medesima realtà in cui le contrapposizioni convivono nello stesso luogo e si alimentano della stessa sostanza. Drammaturgia, movimento coreografico, gesto, ambiente sonoro, spazio scenico, ogni elemento contribuisce alla realizzazione delle dinamiche, in cui eros viene a galla come lente attraverso cui leggere i dettami relazionali. Un disordine ordinato e contraddittorio che rivela l’essere nella sua forza e debolezza.

Nel bianco dilagante della scena, asettico, neutrale e artificiale, è il rosso ad essere un altro degli elementi di contrasto. Colore dell’amore e della passione, ma anche della violenza, del pericolo, del sangue. Una contrapposizione che si rappresenta in tutte le grandezze, fino alla più ampia, che se da un lato sovrasta, dall’altro viene accolta, accettata e incorporata per quello che è (o che è stato e sarà). Così Wassily Kandinsky, nella sua opera Lo spirituale nell’arte, definisce il bianco: «è quasi il simbolo di un mondo in cui tutti i colori, come principi e sostanze fisiche, sono scomparsi. È un mondo così alto rispetto a noi, che non ne avvertiamo il suono. Sentiamo solo un immenso silenzio che, tradotto in immagine fisica, ci appare come un muro freddo, invalicabile, indistruttibile, infinito. […] È un silenzio che non è morto, ma è ricco di potenzialità. Il bianco ha il suono del silenzio che improvvisamente riusciamo a comprendere. È la giovinezza del nulla, o meglio del nulla prima dell’origine, prima della nascita. Forse la terra suonava così, nel tempo bianco dell’era glaciale». E i colori tornano anche nelle forme, punti, linee e superfici che, di volta in volta, vengono assemblati e scomposti, usati come protesi o protezioni per nascondersi, per creare immagini velate o proiezioni sensuali, come dinamiche geometriche per la manifestazione dell’amore, dell’eros, del desiderio e della dipendenza, dell’urgenza con cui trovano spazio nella dimensione coreografica. Assieme al rosso ricorrente, secondo solamente al bianco, è il giallo l’altro colore che segna la scena in due occasioni: una tonalità che si aggancia a un sentore estraneo, eppure conosciuto e desiderabile, che prende corpo in immagini distorte o velate, mantenendo sempre un sapore suadente.

«Come state?», chiede Davide Valrosso al termine di una delle giornate diprova, «Sto nel processo», è la risposta di Olimpia Fortuni.

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