9 luglio

Arrivo al Teatro Comunale di Cormons sotto una pioggia battente. Davide Valrosso, il coreografo, mi ha chiesto di raggiungere la compagnia in tarda mattinata, in modo da poter assistere a una prova filata prima della partenza di Olimpia, una delle tre danzatrici. Non si tratta di uno spettacolo vero e proprio, ma di una cosiddetta “restituzione”, cioè l’esito di una residenza artistica, in questo caso di circa 15 giorni. Davide mi ha coinvolto per gli ultimi tre giorni di lavoro, prima della condivisione pubblica prevista sabato sera, in modo da scambiarci pareri, pensieri, riflessioni. Nel mondo della danza contemporanea la relazione tra artisti emergenti come Davide e studiosi come il sottoscritto è abbastanza comune. L’obiettivo è quello di innescare un confronto, si spera virtuoso, tra figure che lavorano nel medesimo ambito, ma con funzioni diverse, per generare domande e spunti che possano far crescere la creazione finale. La compagnia è in un momento di pausa. Davide da una consolle guida con affettuosa insistenza le tre interpreti, Olimpia, Chiara e Giulia, dando loro le ultime indicazioni. Gli chiedo se devo sapere qualcosa prima che inizi, ma lui preferisce non darmi troppe informazioni, se non il titolo, Love | Paradisi artificiali. Poi rapidamente si fa buio in sala. Tre ombre appaiono come all’alba, in una sospensione amniotica. Potrebbero incarnare tre volti dello stesso principio, tre gradazioni di un femminile che si dischiude con delicatezza al mondo. Un risveglio intimo, che la scrittura, nel suo procedere, anima di una vita sottile, fatta perlopiù di piccole relazioni. In questo ritmo lento ma incessante dei corpi, appaiono progressivamente degli elementi plastici – prima delle piccole sfere rosse, poi delle stecche metalliche e infine delle superfici in parte riflettenti, in parte trasparenti o opache – che trasformano via via i rapporti scenici in visioni dolci ma anche perturbanti. Per esempio, il rosso vivo delle sfere sorge inaspettatamente dalle bocche delle danzatrici, quasi a svelare una condizione occulta ma dominante del desiderio. Oppure le superfici possono nascondere, riflettere o ancora sdoppiare le figure in scena, come nelle fotografie di Kostis Fokas, in cui le parti periferiche del corpo – gomiti, caviglie, braccia e gambe – diventano protagoniste di nuove possibili combinazioni dell’umano. O ancora le stecche indicano, provocano inaspettate e momentanee gerarchie, ma anche sezionano e strutturano lo spazio d’azione. La danza, in questo universo, è avvolta in una ieraticità permanente e metafisica. Le interpreti galleggiano dentro un destino orientato alla percezione simbolica, complici nell’indirizzare e accelerare il senso di surrealtà che evolve in una sorta di indiretta celebrazione del femminile. Mai enfatica o retorica, piuttosto volta a spingere lo spettatore a indagarne le trasformazioni, incarnate in qualche misura dal carattere cangiante delle tre protagoniste: ora sanguigno, ora moderatamente sensuale, ora rarefatto e contemplativo. E tuttavia mai scisso, come fosse un unico, e per certi versi “mostruoso”, organismo a servizio di una visione artistica, che dunque supera la soggettività e il protagonismo delle stesse danzatrici.

La compagnia lavora di cesello sui dettagli. Valrosso si concentra molto su qualità solo apparentemente microscopiche – un piegamento del ginocchio, una padronanza del gesto, un modo di appoggiare il piede – che richiedono all’interprete una attenzione millimetrica e donano all’insieme un rigore necessario. Ma ciò che mi affascina di più è quel suo indurre i danzatori alla ricerca di qualcosa di individuale nel movimento, al contempo personale, autentico e comunque aderente alla sua visione di coreografo. Fatto di direzioni che improvvisamente si sfaldano, come fossero disegnate sulla sabbia, sul bagnasciuga, e consegnate di continuo alle onde del mare.Questa condizione, in cui l’amore evocato dal titolo della creazione pare risolversi in una dimensione astrattamente ritmica del desiderio, che unisce e al contempo divide gli individui, culmina in una genesi. Una sorta di figura aliena, senza genere e sesso, viene a un certo punto come partorita dalle figure in scena. La sorprendente metafora di un amore tutto al femminile, capace di auto generare e autogenerarsi, ma che lascia forse il senso di una solitudine, pur nel complice e misterico abbraccio finale delle tre protagoniste.In realtà, il senso di questo tipo di restituzioni va colto soprattutto nella possibilità di proporre una creazione ancora fragile all’attenzione di una comunità autenticamente interessata al lavoro di un artista. Senza giudizio, senza l’ansia di capire per filo e per segno ogni cosa, quasi l’arte, come il reale, dovesse sempre essere vittima della versione in prosa che ha disinnescato la poesia del mondo quando eravamo sui banchi di scuola. Non importa quanto questa comunità sia ampia, l’importante è che la si accompagni, come in questo caso, a raggiungere la consapevolezza dello scarto che passa tra uno spettacolo da consumare e un processo creativo di cui essere partecipi.  

La residenza creativa di Love | Paradisi artificiali si è tenuta presso il Teatro Comunale di Cormons dal 6 all’11 ottobre 2019 e dall’1 all’8 novembre 2019, ospitata da ARTEFICI – Residenze Creative 2019. Ha visto la partecipazione di Davide Valrosso insieme a Chiara Ameglio, Olimpia Fortuni e Giulia Porcu. Un ringraziamento speciale a Chiara Cardinali per l’invito e per l’ospitalità.

Leave a Reply